Per chi suona la campa...nella
Scritto da prof.ssa Luisella Saro il 12 Aprile 2010.
Al mattino arrivo a scuola molto presto. Faccio la strada a piedi con mia figlia, adolescente come gli studenti che incontrerò dopo poco, ed è un momento bello, in cui, camminando insieme, ci regaliamo a vicenda un po’ di tempo e un po’ di chiacchiere, prima che ciascuna entri a scuola; lei come studentessa, io…dall’altra parte della cattedra. Due scuole diverse, per fortuna sua!
Arrivo presto, dicevo, e così ho modo di vedere i ragazzi seduti sugli scalini, o fumare a capannelli in cortile, o arrivare a due due a due o in gruppo dalla fermata del pullman, o mentre chiacchierano davanti alle macchinette del caffè o fuori dall’aula.
Li osservo nell’abbigliamento e capisco che felpe vanno di moda, o che scarpe da ginnastica, o che jeans o quali tagli di capelli. Guardo, ma non è questo ciò che cerco. Sento che non mi basta.
Li osservo e vedo volti ancora assonnati (certi pendolari, poverini, è mesi che fanno delle levatacce e non rimettono piede a casa prima delle tre e mezza del pomeriggio!), o rabbuiati (“Che abbiano verifica?”, mi chiedo), o velati di tristezza. O di quella “malinconia” specialissima, dolce e amara ad un tempo, che è la “malinconia” dell’adolescenza.
Oppure sono volti gioiosi, e allora senti garrule risate fare eco nei corridoi.
Li osservo e scorgo qualcuno che preferisce starsene da solo, con le cuffiette ad ascoltare l’ultima canzone prima del suono della campanella; altri, seduti, si fanno passare in extremis, risolto, l’esercizio di matematica o di lingua straniera (ma allora faccio finta di non essermene accorta); qualcuno ripete la lezione a voce alta con un compagno. C’è chi fa una capatina in bagno a darsi una sistemata prima di entrare in classe, “perché poi i proff. non fanno uscire prima della terza ora” e chi arriva affannato perché quel maledetto treno non è mai puntuale “e vaglielo a spiegare tu, al prof., che anche gli studenti del XXV Aprile sono arrivati tardi come me”.
Qualcuno si attarda alle macchinette “perché tanto il/la prof. Tal-dei-tali non è mai in orario” e così c’è tempo per l’ultimo caffè o per fare scorta di calorie e di grassi saturi pronti per la ricreazione.
Li osservo in questo muoversi da formichine che ad un certo punto, in fila più o meno ordinata, entreranno nelle rispettive classi, e non poso non rivedere me, alla loro età.
Altri vestiti, certo; niente tecnologia (“Mamma, tu sei del Giurassico!”, mi dicono i miei figli ridacchiando o scuotendo pietosamente -impietosamente!- la testa, quando, impacciatissima, cerco di cimentarmi tra mouse e tastiera, o sono alle prese con un cellulare che non conosco…).
Certo sono cambiate tante cose, dal “Giurassico”, appunto (ed eravamo solo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta), quando, al liceo, in un banco e non in cattedra, c’ero io.
Eppure…Eppure se sono cambiate tante cose, dal “Giurassico” ad ora, non è cambiato il cuore dell’uomo. E così li guardi negli occhi, quei ragazzi che incontri presto, la mattina, e che magari non sai da dove vengono, né come si chiamano, né quale sarà il loro destino, e capisci che hanno nel cuore le stesse domande tue, lo stesso desiderio di felicità e di compiutezza che ti urlava dentro.
Li guardi, e nei loro occhi talvolta impauriti, nel loro sguardo ora annoiato ora curioso, c’è la stessa tua domanda di allora, e cioè che i genitori rendano ragione della promessa fatta quando li hanno messi al mondo: che la vita “è una cosa buona”, che la vita “vale la pena”.
Suona la campanella delle 7.55 ed entro in classe. Ritrovo “quegli” occhi, rivedo, dentro, “quella” domanda. So che, discreta ma serissima, è rivolta pure a me.