Accade con i libri come con le persone
Scritto da prof.ssa Luisella Saro il 29 Marzo 2010.
C’è stato un saggio, uno vero; così “vero” da non esserne nemmeno consapevole; così “vero” da sentirsi inadeguato all’esistenza ed avere l’umiltà di dire, con la sofferenza che ha accompagnato tutti i suoi giorni, che anche vivere è un “mestiere” che va imparato; così “vero” e così umile da concludere il suo diario “Il mestiere di vivere”, appunto, con queste tre frasi brevissime: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.
E il 27 agosto del 1950, in una camera d’albergo, a Torino, si tolse la vita: una resa alla solitudine contro cui aveva lottato sempre. Ebbene, Pavese, in un articolo pubblicato il 20 giugno 1945 su “L’Unità” di Torino così ha scritto:
“Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma appunto per questo dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della nostra pigrizia. In questo l’uomo che tra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale d’umiltà, d’inconsapevole forza - la sola che valga - che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta. E questo vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, che è poi l’unico modo di comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato”.
Capita che l’adulto (e pure l’insegnante), presuntuosamente “sazio” di letture, di conoscenze, di esperienza, rischi di dimenticare, quando si accosta ad un testo, a casa o a scuola, la cosa essenziale: lo stupore del bambino. E così non sa più leggere libero da pregiudizi ideologici o dalla tentazione di muoversi tra le righe con la lente d’ingrandimento dello “specialista-scienziato” che, attento all’analisi testuale, retorica, stilistica, perde il regalo più grande che un libro possa donare a chi lo apre: il rapporto con l’altro: un “tu”che desidera parlare con un “io” che lo sta ascoltando.“Accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta”, ha scritto Pavese.Solo così, e cioè solo muovendosi in punta di piedi, spinti dal desiderio di incontrare la persona che abbiamo di fronte, seppur non in carne ed ossa ma per le cose che, scrivendo, ci ha voluto comunicare di sé e del suo modo di concepire l’esistenza, solo così, “comprendendo gli altri”, impareremo a comprendere e ad amare noi stessi.Perché ha proprio ragione Pavese: “I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato”.