Scritto da Studenti di 5CU
il 13 Dicembre 2016.
Una conferenza, un video, la visita a una mostra e poi? Poi abbiamo deciso che non ci andava di mettere nella soffitta della memoria quanto avevamo ascoltato, quanto avevamo visto, e così ci siamo lasciati interrogare dal libro “L'inverno d'Italia” di Davide Toffolo e dai disegni degli internati, appesi alle pareti del Collegio Marconi, che per un mese ha ospitato la mostra “Oltre il filo”, tracce di memoria del campo di concentramento di Gonars (UD), 1942-1943. Abbiamo provato a immaginarci lì, in quel recinto.
IL PESO DELLA MALINCONIA
Le gambe non sapevano più ballare.
La bocca non sapeva più baciare.
La pelle non copriva più le ossa o
forse le ossa non erano più brave a giocare a nascondino:
si facevano ogni giorno più vedere.
48097, 98760, 98745
I numeri non parlano, non ridono, non sognano...
Eravamo questo noi: calcoli sbagliati, errori.
Dove si studia come essere giusti?
Cosa hanno visto i miei occhi nessuno può saperlo...
Elisa Rinaldo
IO SONO FORTE
Mi sento forte, tu non puoi schiacciarmi!
Mi accusi di essere diverso da te. Ed è vero!
Io sono diverso da te in tante cose.
Io sono umano, tu sei un carnefice.
Io ho le ali della speranza, tu invece hai l’arma dell’ignoranza.
Tu non capisci il diverso, io ritengo che il diverso sia fantastico.
Io sono più forte di te perché per ora non sei riuscito a togliermi dal mondo.
Una cosa però la abbiamo in comune: io ho fame e anche tu.
Ma anche in questo c’è una piccola differenza:
io ho fame perché non ho pane,
tu hai fame di sangue
perché non ti senti abbastanza forte
se prima non schiacci qualcuno.
Giada Guiotto
IMPRONTE DISTRUTTIVE
Li sento.
Sento i loro passi in ogni istante, così pesanti e decisi da far tremare l’anima e gelare il cuore.
Sento le voci e di nuovo i loro piedi che si fanno strada per distruggere, uccidere e conquistare altre terre, altra gente. Chiudo gli occhi, stringo i pugni e mi siedo, sola. Non funziona.
Li sento.
Camminano fieri, senza paura e senza rancore sopra i nostri destini, i nostri sogni e le nostre vite. Spengono i desideri e soffocano la speranza.
Minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
Kiara Nadalon
L'IMMAGINAZIONE NERA
Sono qui, pensieroso e pieno di paura, con Giuditta, una bambina conosciuta nel campo in cui vivo. Dopo vari bisticci, dato il mio carattere scontroso e scettico, siamo diventati amici.
Stiamo provando a distogliere lo sguardo dalla crudeltà che ci circonda, cercando di immaginare a cosa assomigliano le nuvole alte nel cielo.
“Giudi, guarda lì! Un carro armato, un signore in uniforme e la mia casa, hai visto?”
Mi accorgo improvvisamente che le sensazioni che provo non sono altro che ciò che vedono in continuazione i miei grandi occhi malati. Vedo solo nero, male, morte. Vedo nostalgia.
Sono nostalgico della mia casa, della mia famiglia, della mia infanzia, distrutte dagli Italiani.
Provo così tanto disprezzo che nella mia mente non si accumula altro che odio verso questa gente che ci opprime, che ci sopprime.
Mi sento un adulto in miniatura. Intorno solo sofferenza.
Giulia Drusian
IL RANCIO
In fila, uno dietro l’altro. In ordine, senza parlare. Vicini, quasi attaccati per impiegare meno tempo. Sul collo sento il flebile respiro del giovane ragazzo alle mie spalle e tutto sembra svanire, solo una cosa conta: raggiungere il soldato con il mestolo, pregando ogni volta che lo riempia più della volta precedente. Ma quando ci si muove, perché il primo ha preso la propria razione, inevitabilmente si capisce che per te ce ne sarà sempre meno.
È il mio turno e porgo il contenitore tremolante al soldato, guardandolo fisso negli occhi, cercando di far scorrere il sangue nelle sue vene, di riaccendere il battito del suo cuore che ormai da troppo è insensibile, ma lui velocemente abbassa lo sguardo verso il mestolo e lo riempie quel poco che serve a sporcare la ciotola. Non posso dire niente, mi volto e inizio a mangiare piano, lentamente, fingendo che il cucchiaio sia pesante, pieno di minestra, illudendomi che così facendo possa non finire mai.
Elisa Guiotto
IL MIO POSTO
“Mamma hai mai desiderato
morire?”
“No, Petr, mai: non lo si deve desiderare mai”, mi rispose lei con sguardo protettivo.
Anche se era difficile proteggere un figlio in un posto del genere, lo sguardo di mamma mi difendeva tutti i giorni. Mi difendeva dal freddo, dai dolori, dalla fame, dagli incubi. Era la mia unica salvezza, ma non mi bastava.
“Perché me lo chiedi, tesoro?”
“Perché in paradiso avremo un posto tutto nostro, che nessuno può toglierci.”
Mamma allora scoppiò a piangere e io, che all’epoca avevo solo dieci anni, andai via. Mi misi seduto di fronte alla baracca in un posto che mi permetteva di intravedere l’orizzonte. Un posto in cui c’ero solo io, e il resto, anche se per poco, non era realtà. Un giorno, mentre stavo in quel posto, sentii qualcuno toccarmi la spalla. Era una bambina più o meno della mia età, di nome Lenka.
“Come ti chiami?” mi chiese squillante.
“Petr”, risposi seccato. Non capivo cosa volesse da me, proprio non lo capivo. E tantomeno capivo cosa ci trovasse di così allegro nel parlarmi.
“Cosa ci fai qui?”, le chiesi a mia volta.
“Quello che ci fai tu”, ribatté quasi fosse un gioco.
“Vattene” le dissi “questo è il mio posto, non il tuo, è IL MIO POSTO.”
Non volevo nessuno, ero convinto che quel pezzo di terra grande non più di un metro per un metro che avevo segnato con un solco nella melma fosse qualcosa che nessuno sarebbe riuscito a togliermi, tantomeno una bimba impicciona e puzzolente.
Ero convinto che un buco nella terra potesse difendermi meglio di uno sguardo, dello sguardo di mamma.
Solo pochi mesi dopo però, quando la pioggia portò via sia il mio posto la mia che mamma, capii che forse uno sguardo in più avrebbe fatto la differenza, anche se impiccione e puzzolente.
MariaTeresa Simionato
Un conto è leggere parole sui libri, guardare documentari alla Lim, ascoltare i prof. a lezione, studiare distrattamente per l'interrogazione. Un altro conto è calpestare quei sassi, quell'erba che hanno calpestato loro, i soldati, nel monte San Martino, entrare nelle loro trincee. Vedere, al museo della Prima Guerra Mondiale, a Gorizia, le foto vere, i reperti veri, le armi vere dei combattenti al fronte. Vederle, le loro calzature sbrindellate, la loro divisa-di-lana-per-tutte-le-stagioni. Torni a casa e non sei più lo stesso.
NON DEVE ESSERE STATO FACILE
Lì, lì dove tanti hanno vissuto, hanno mangiato, poco, hanno dormito, poco, hanno riso, poco, hanno combattuto per difendere la loro patria, ora c’è una rigogliosa vegetazione che circonda quei massi, quelle pietre che un tempo erano macchiate di sangue, ricoperte di corpi.
Se quegli uomini dovessero vedere adesso quel posto, rimarrebbero sbalorditi: non se lo sarebbero mai immaginato così, di nuovo vivo.
Forse ci speravano, ma immaginarlo no. D’altronde come potevano, vedendo quello che stava succedendo, vedendo i loro amici andarsene così per un colpo di mitragliatrice, sentendo l’aria irrespirabile per i gas; come potevano se ogni giorno, ogni ora, ogni minuto molti di loro se ne andavano, se non potevano nemmeno uscire per dare una degna sepoltura ai caduti, se erano sempre costretti a stare lì, lì seduti, lì in piedi, lì sull’attenti, sempre pronti per non farsi cogliere impreparati.
Non deve essere stato facile non poter sapere come stava la propria famiglia a casa: madri, padri, mogli, figli, non deve essere stato facile vivere con la paura di poter morire da un momento all’altro, non deve essere stato facile avere tutto quel coraggio, non deve essere stato facile essere un soldato.
Anna Selavaggi
QUALCUNO CHE SI CURI DI ME
Disteso, abbandonato, aspettando la morte. E' facile credere in Dio nel mondo in cui vivo: ne ho bisogno perché non c'è nulla per cui combattere, se non per sperare che qualcuno si curi di me, una volta che avrò lasciato questa terra. Nella vastità che mi circonda vedo solo crudeltà e cattiveria. Dov'è la mia pace? Per cosa ho vissuto? Ho bisogno di un Dio che mi strappi da tutto e metta fine a questa follia, ho bisogno di credere che la vita non sarà per tutti così, che la mia sorte sarà di insegnamento per tutti in futuro, perché gli uomini devono capire che qualsiasi guerra è sbagliata e la vita ha un valore inestimabile, intangibile.
Clara Zorzin
CARA FRANCESCA
07/06/1915
Cara Francesca,
mi trovo qui a scriverti, mi manca la tua presenza.
Mi manca svegliarmi con te accanto. Ora non riconosco più il giorno e la notte, dobbiamo essere sempre in allerta. Il mio corpo mi è sconosciuto: dormire seduti, in piedi, stare dentro le trincee piene d’acqua… Abbiamo poche razioni di cibo e quello che ci arriva è stato preparato la mattina per la sera, l’acqua spesso manca.
Ho imparato ad usare le armi. Non pensavo fosse così difficile uccidere qualcuno: alla fine, anche loro avranno una famiglia, dei figli, come me.
Sei una delle poche ragioni che mi fanno andare avanti. Sei l’unica che mi tiene legato alla realtà perché quello che faccio ogni giorno mi fa allontanare sempre di più dalla persona che ero.
Probabilmente questa lettera non ti arriverà perché loro controllano ciò che scriviamo, ma la speranza non muore mai.
Ti riscriverò, a presto mia amata.
Il tuo Piero
Sara Macchi