Incontri e riflessioni

Miscellanea estiva, dopo l'Esame di Stato

Scritto da Francesca Falcomer, ex-allieva della 5AL dell'a.s. 2009/2010 il 21 Settembre 2010.

Ebbene sì! Come mia mamma va dicendo al mondo, sono riuscita a passare l’esame di ammissione per la facoltà di interpreti e traduttori a Trieste. In verità, ho tentato l’esame quasi per gioco, convinta, chissà poi perché, che non avrei potuto confrontarmi con gente da tutta Italia che pensavo - chiedo perdono in anticipo al “Belli” -  indubbiamente sarebbe stata più preparata di me. Del resto, ritenevo già di pessimo auspicio non riuscire a pronunciare insieme, correttamente, nemmeno le due parole: “INTERPRETI e TRADUTTORI” ad una velocità ragionevole e senza ingarbugliarmi nelle “erre”, col rischio di fare la figura della bambina di due anni che va dal logopedista. Figuriamoci passare il test d’ammissione! Riuscire dunque a superare un esame che risaputamente è davvero tosto, ora mi pare davvero un buon risultato. Siccome però, secondo chi mi conosce, da sempre passo metà del mio tempo a sottovalutarmi e ad esibirmi in dichiarazioni di umiltà e mediocrità assoluta, confesso che tuttora capita che bussi alla porta del mio cervello la tentazione (appena appena autolesionista) di pensare che in realtà sono passata unicamente per un indicibile colpo di fortuna, che c’erano indubbiamente persone meglio messe di me quanto alla conoscenza delle lingue, eccetera eccetera. (Chissà: che la mia  autostima abbia bisogno di un tagliando di controllo?…).
Quello che, però, in assoluto, mi ha lasciato più stupita è la mia reazione alla notizia di essere fra gli ammessi: zero. Catatonica. Come la cosa non mi riguardasse. Più o meno la stessa sensazione di quando ho saputo del voto all’esame di maturità. Sembrava che ad interessarsene e a felicitarsene fossero solo i miei amici e parenti, e che io me lo aspettassi come naturale corso delle cose o non lo ritenessi possibile, tanto da restarne allibita. Due opzioni: a) ho seri problemi nell’esprimere pareri positivi sul mio conto; b) SAPEVO che sarei passata (e pure bene) grazie a non so che intuizione preveggente. Ai posteri l’ardua sentenza.
Ora però il mio veneto e contadino buonsenso mi copre di imprecazioni, dicendomi di smettere di ciarlare e di cominciare a fare qualcosa di utile. Credo che mi rimboccherò le maniche e l’ascolterò. E’ una voce che - chissà come mai - somiglia spaventosamente a quella di mio padre, quando da piccola me ne saltavo fuori con qualche strana teoria e lui, il più delle volte, mi liquidava esasperato. (“Mai far leggere ai bambini libri più grossi di loro!” Almeno questo ho imparato, anche se confesso che non l’ho mai messo in pratica…).

A proposito di libri: se questo può scagionarmi dall’accusa di essere una nullafacente, almeno dal punto di vista letterario, quest’estate ho cercato di soffocare quella che reputo ignoranza vergognosa, ingozzandola di qualsiasi cosa cartacea di un certo valore mi trovassi sottomano. E così ho arraffato tutti i libri in edizione economica che ho potuto trovare sugli scaffali di librerie, negozi, supermercati e case di parenti consenzienti/indifferenti. La mia orgia letteraria (perché di questo si tratta) è stata e continua ad essere piuttosto disorganica: ho aggiunto alla mia biblioteca qualcosa di Shakespeare, Jane Austen e Charlotte Bronte; racconti di Poe; ho tentato Kafka (ma c’è qualcosa che non mi convince); ho recuperato finalmente “ll barone rampante” e “Il visconte dimezzato”; ho letto “Madame Bovary”. E poi fiabe multietniche trovate ancora nel cellophan in una cantina, e pure Oscar Wilde. Ho letto “Alice nel paese delle meraviglie” in uno sfoggio improvviso di inglesitudine (l’ho letto in lingua originale e mancava poco che mandassi a farsi benedire la mia materia grigia e pure il Regno Unito), “Gente di Dublino” di Joyce (v. Kafka), altre poesie tratte da “I Fiori del male” e molti altri testi che ora non mi vengono in mente, ma che stanno in precario equilibrio uno sopra l’altro. Ah, ho letto anche “Il nome della rosa”, perché, sentendo le spiegazioni al termine dell’anno scolastico, mi aveva incuriosito. Risultato? Tutte le idee che mi ero fatta sul romanzo postmoderno, il tempo di terminare la postfazione e già si sono disintegrate, tanto che mi sono convinta che Eco avesse solo voglia di annebbiare il lettore e di prenderlo per il naso. Altro che riflessione sul Medioevo con annessi eresie nichilismo relativismo morte dei valori eccetera eccetera! Come peraltro dice lui, si è inventato qualche monaco ammazzato e si è preso gioco dei lettori, portandoli a seguire false piste, confondendoli, per lasciarli in un angolino a chiedersi se il libro che avevano fra le mani fosse un giallo o chissà che altro. Alla fine, se è un libro postmoderno lo è unicamente per il fatto che il suo autore, postmoderno e dunque relativista, nega che lo sia, se si capisce ciò che intendo. Se non si capisce, forse è perché non l’ho capito bene neppure io (e forse neppure l’autore) e così, pur continuando a dormire benissimo la notte, me ne vado a ingrossare le file del lettore medio perplesso, mentre Eco, che a questo punto immagino come un grosso signore un po’ presuntuoso, di sicuro se la ride dall’alto del suo enciclopedico sapere. Lui evidentemente… “può”, al contrario dei comuni mortali!

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