La voce che mi tormenta
Scritto da Jacopo, 5as il 29 Marzo 2010.
Caro amico,
sempre vagai alla ricerca d’un luogo immune alla fatica umana. Tu sai. Molto ho errato, ed invano ho cominciato il mio viaggio verso luoghi primitivi, ove la civiltà non aveva ancora contaminato lo stato di natura che vigeva in posti tanto affascinanti quanto pericolosi. Lì trovai una fatica mai provata, che non avrei mai creduto d’incontrare: la fatica di vivere. Una morsa mi prese mente e corpo. Non seppi che fare.
Non creder, però, ch’io intenda la fatica comune a tutti gli esseri che vivano in condizioni in cui la natura è antagonista alla stessa vita. La fatica di cui ti parlo è diversa.
È puramente mentale, concettuale. Non ha nulla a che fare con la fatica fisica. Ogni giorno mi tormentavano domande, domande che possono sembrar assurde, domande sulla fatica di continuare una vita sofferta, come la mia, come la tua, come quella di noi, tutti, esseri umani. Perché continuare tanta fatica? Perché perpetuare una vita tanto vana quanto sofferta?
Queste domande affollavano la mia mente, che una volta, infantilmente, un po’ presa dall’apatia, cercava un modo per non affaticarsi troppo… Il mio vagare, credevo, mi sarebbe servito per cercare un posto, su questa terra, ove tutto fosse già pronto, ove non occorresse faticar per procurarsi ciò di cui si ha bisogno. Mi sbagliavo! Incontrai ben altre difficoltà, che procurarmi cibo ed un riparo.
Per sfuggire a tanti problemi e alle troppe domande che ormai m’avevano contaminato fin il corpo, scappai! Mi diressi verso quella che una volta anch’io chiamavo ‘civiltà’, ove credei non sarei più stato solo coi miei dilemmi, ove potevo condividere tormenti ed opinioni.
Con qualche soldo raggiunsi Venezia, meravigliosa città, vinta dal tempo, con un fascino tutto suo, ineguagliabile centro d’arte e di cultura. Mi sembrò la scelta perfetta. Lo sfarzo dei suoi palazzi ed il fetore dei suoi canali m’avevano stretto il cuore in un abbraccio dolcissimo e soffocante ad un tempo.
Ma la gente lì non fu affatto gradevole. Trovai un astio indicibile in quella città, un’astio che mai mi sarei aspettato. Invece d’accomunarci, d’unirci tutti in una “social catena”, la fatica a vivere ci divide, ci separa, fa litigare i fratelli e combattere le madri.
Credei di morire, e per un poco lo sperai. Se solo avessi trovato pace, non mi sarei più tormentato. Mai più. Quanto è faticoso vivere!
Il Fato volle che ricominciassi a vagare… Continuai per anni la mia ricerca, la mia iniziale ricerca; tutto però mi ricordava i giorni passati in quei luoghi dimenticati da Dio, in quegli ambienti, in quei paesaggi, che tanto simili sono ai paesaggi dell’anima mia. Mi diressi fin in Asia, la lontana Asia, la terra della pace interiore (così, almeno, si dice), ove credei di trovar vita senza fatiche. M’avvicinai persino al Buddismo, invano.
Io cercavo l’illuminazione per raggiungere quello stato mentale che ci permette di non essere più schiavi del bisogno, così da non dover più faticare.
Egoisticamente, però, volevo raggiungerla subito. Mi sforzavo, senza risultati.
Impazzivo. La meditazione mi rivelò fatiche nuove. Infastidito, non pensavo ad altro che alla Fatica. Mio unico tormento, mio unico timore.
Sono tornato a casa da quasi due settimane ed ancora la mia condanna insiste. Mi dilania le carni e mi scuote fin a farmi perdere i sensi. Insiste. Non penso ad altro. Non posso pensare ad altro, ormai. Non darmi del codardo. Ormai ho deciso. La voce che mi tormenta tacerà. Per sempre. Tacerà! Insopportabile voce!
Caro amico, tu solo capirai il mio gesto. Mi compatirai? Pure tu hai sofferto ed hai tanto faticato nella vita. Tu mi sei sempre stato amico, ma per me eri come un fratello, un fratello maggiore, un maestro. Ed io ti volevo bene come a un padre. Capirai. Tu che, solo, sentirai la mia mancanza. Tu e solo tu. Ti chiedo perdono, ma i paesaggi dell’anima mia sono troppo oscuri. Non c’è quasi più luce in me, e la flebile fiammella che danza sola nel buio sta per spegnersi. Perdonami, amico mio.
Addio
Bruxelles 11 dicembre 1873