La "mia" Siberia
Scritto da Giulia Bozza il 27 Dicembre 2015.
Quando mi iscrissi all'università e decisi di intraprendere lo scosceso sentiero della lingua russa, non avrei mai immaginato che solo un paio di anni dopo mi sarei ritrovata all'aeroporto, con una valigia di venti chili a fianco e un biglietto diretto a Tomsk, in Siberia. Maglioni di lana, collant, calzettoni pesanti, un quaderno e una penna, il notebook e tanta, tanta paura, ecco cosa mi sono portata fin quaggiù.
Uno dice "Siberia" e pensa, non in ordine di importanza, a: freddo, tanto freddo; boschi; case di legno; orsi e lupi; neve; ancora freddo. Ma che ci vai a fare là, mi chiedevano, che razza di gente potrai mai trovare? E io non potevo che sorridere imbarazzata, forse se aveste letto anche voi La sonata a Kreutzer o La mite, mi capireste. O forse no, preferireste ugualmente pensare che un Erasmus a Barcellona sia più interessante - e chi lo sa, magari è così - e che io me ne sono andata a congelarmi gli alluci per una nemmeno tanto velata tendenza masochista. Ma avrei voluto accompagnarvi tutti alla serata alla quale mi portarono un paio di settimane fa, durante la quale degli studenti declamarono delle poesie di Esenin; nemmeno io capii - come non capireste voi - ma il suono di quei versi era talmente bello che qualcosa di me li comprese senza bisogno di aprire il vocabolario. Vi sareste innamorati, ne sono certa, e non mi avreste domandato ancora il motivo che mi spinge in questa cittadina di mezzo milione di abitanti poco più a nord di Novosibirsk.
Potrei raccontarvi tante cose interessanti della storia di Tomsk, la città dove sto ora, fare leva sulla passione per l'esotico, la stessa che vi spinge a scegliere la vacanza a Sharm El Sheik anziché a Firenze. Vi mostrerei le foto delle case in legno con le finestre colorate, o quella del lago circondato da un bosco di betulle che si è completamente ghiacciato e che trasformeranno in una pista di pattinaggio. E ancora, la statua di Lenin all'inizio della strada principale, le vecchie che vendono zucche e miele agli angoli delle strade, le chiese ortodosse con le loro icone dorate, il modo in cui il respiro si trasforma in brina quando le temperature scendono sotto i meno quindici sottozero. Mi guardereste con gli occhi sgranati - ma come, non ci credo che è così.
Ma la mia Siberia è più simile alla neve che si posa sui rami spogli delle betulle di fronte all'università e sui frutti rossi del roibo. La ritrovo nel cielo interrotto dalla sfumatura arancio che assume dopo il tramonto, e dalle tazze di tè nero che mi scaldano dopo una passeggiata fino al lagernij sad, un parco non troppo lontano da dove abito. La mia Tomsk è il bukinist - un negozio di libri usati - che vende romanzi con le pagine ingiallite e la dicitura "Casa Editrice di Stato" sul frontespizio; i cani di fronte al dormitorio che implorano una carezza e qualche osso che non ho mai, le mani gelate dentro ai guanti di lana.
Me l'hanno chiesto davvero in tanti, cosa ci faccio qua. Dicono che faccia freddo. Ed è vero, ma il freddo secco che ti toglie il respiro non appena metti piedi fuori dallo studentato, è quasi accogliente. Ti pizzica il naso, gli occhi a volte lacrimano, ma se si è abbastanza coperti e si tiene la testa sotto al cappello, ci si rende conto che tutto quel gelo è solamente il goffo abbraccio di un nonno un po' ruvido che non sa come prendere in braccio il nipote. La prima mattina di freddo intenso - meno trenta, ma si può uscire? - io e le mie amiche temevamo ciò che ci aspettava oltre il portone, ma ci siamo gettate con un sorriso tra le braccia di quel freddo amico. Guardami, guarda, mi si sono congelati i capelli! E le sopracciglia! E da quel giorno no, non ci fa più paura l'inverno. Ci gonfia di una strana euforia, l'aria, qui. Potessi imbottigliarla per le giornate di afa.
E in fondo, ogni luogo ci appartiene, dopo essersi riempito di tutta quella dolce quotidianità che stabilizza il nostro baricentro emozionale. Non ha importanza se ci si ritrova a cinquecento o cinquemila chilometri da casa, il luogo fisico ha un'importanza illusoria solamente fintanto che non diventa parte della nostra esistenza. I primi tempi, la malinconia - potrei scrivere un trattato sulla malinconia, quella azzurra che ti prende quando guardi fuori dal finestrino del treno mentre stai tornando a casa e quella purpurea che ti rimane addosso dopo l'ultimo abbraccio con un caro amico - rende tutto più inospitale. E in quei momenti mi sono chiesta anche io, cosa ci facevo, qui. Poi, a poco a poco, la mia dimensione si è adattata allo spazio di Tomsk, con i suoi palazzi sovietici e le sue strade scivolose, agli occhi a mandorla degli asiatici e alle loro espressioni sempre amichevoli, ai russi che non sorridono mai ma ti aiutano sempre, se ne hai bisogno. Per tutto questo, anche per questo, posso dirvi che no, la Siberia non fa paura. E se mi chiedeste ora che ci faccio qui, saprei cosa rispondervi.