L'uomo iguana sa, perché l'uomo iguana è
Scritto da anonimo il 29 Marzo 2010.
A volte penso che siamo come le iguane, per esempio io assomiglio molto al Frisonoma Cornuto, nel suo habitat naturale (Kansas, Texas e Arizona) si sotterra nel terreno sciolto o si rifugia nei cespugli mangiando solo animali più piccoli di lei come formiche o piccole bisce. Dico di assomigliarle perchè sono anni che vivo così. Mi nascondo dalla gente, prediligo i luoghi bui e imbucati e tento l'approccio solo con persone o animali più impauriti di me.
Odio la confusione e i luoghi affollati, due costanti della società moderna, adoro le linguine al pesto e le donne con le tette grosse. Ho perso il conto degli anni che ho, di sicuro più di trenta, di sicuro meno di cinquanta, ci sono delle giornate in cui mi sento un neonato in questo mondo frenetico, altre in cui mi sento un vecchio saggio, un eremita che la sa lunga, a cui non la si può fare. Ho passato molti anni a cambiare abitazione, un giorno qui, un giorno là... Era un tormento, mi perdevo facilmente e passavo intere nottate a cercare casa. Sono quasi tre anni invece che sto qui, a Valle dei Re. Abito in questo appartamentino che puzza di piscio e cipolla. Gli unici miei amici sono i piccioni, si avvicinano a me, mi trovano e mi vogliono bene. Ci sono dei giorni in cui mi metto del pane in bocca e mi faccio colpire dolcemente dal becco affamato dei miei amici volatili, sembra quasi un bacio interrazziale. Io un bacio non l'ho mai dato: quando ero piccolo le bimbe mi evitavano, mi chiamavano spaventapasseri e mi facevano lo sgambetto. Comprensibile. Quando ero piccolo tenevo un mucchio di ferraglia in bocca, attaccata ai denti, avevo l'apparecchio e mi puzzava l'alito nonostante mi lavassi i denti più volte al giorno: una volta alla mattina, una volta dopo pranzo e una dopo cena. Così mi ha insegnato mia mamma, così facevo ogni giorno, ubbidiente. Quando parlavo la saliva si spiaccicava sui fili dell'apparecchio dando vita a un fenomeno non troppo bello per la gente che mi stava davanti.
Mio padre e mia madre all'inizio non si preoccupavano troppo, dicevano che a quell'età è normale essere un po' insicuri, esclusi. Cominciarono a preoccuparsi quando, alle medie, dopo la scuola non tornavo a casa. Dicevo ai miei che andavo dagli amichetti: un giorno da Luisa, un giorno da Giovanni, un giorno allo zoo safari con Albertino e suo padre, a mangiare panini con la caciotta e a guardare i leoni. Dicevo così e invece andavo al pontile, mi sedevo sul bordo della staccionata e tenevo i piedi nell'acqua; ogni tanto allungavo la mano dietro di me, afferravo una pietra e la lanciavo lontano, sperando di lanciare il mio apparecchio per i denti, la mia erre moscia, i miei piedi troppo grandi, i bambini che mi prendevano sempre in giro.
Non sto qui a piangermi addosso; la vita è così: c'è sempre bisogno di un emarginato, uno da prendere per il culo, uno a cui mettere la carta igienica nella cartella e i gessetti nel panino. Non sono stato il primo e non sarò nemmeno l'ultimo. Un giorno me ne sono andato di casa, avrò avuto sui vent'anni anni. Sono andato al pontile, ho riempito la borsa di sassi piatti, da lanciare facendo i rimbalzi sull'acqua, sono montato in sella alla mia bici e ho cominciato a pedalare fino alla stazione dei treni. Ho preso un treno per Firenze. Di soldi ne avevo: continue mance di Natale, paghette per i sabato sera passati in solitudine al parco comunale, mance per i compleanni e ancora per l'epifania, per comprare i cioccolatini a San Valentino per ragazze invisibili e via discorrendo. Sono arrivato di notte, la città mi inorridiva con le sue mille luci, mi attraeva con le sue mille oscurità. Sono scivolato schifato tra la gente, mi sono riparato sotto un ponte, vicino all'acqua di fiume, nera che inghiotte e libera, nera che sta, nera che è, mi sono sbranato i miei due panini col prosciutto cotto e la sottiletta, mi sono addormentato quasi subito. I miei genitori non mi hanno mai cercato.
Mi sono svegliato abbracciato al mio zaino pieno di sassi, mi sono lavato il viso nel fiume, mi sono alzato e ho cominciato la mia ricerca. Cercavo un posto ombroso e umido, un posto isolato dove stare, un posto dove creare il mio impero di fantasia e rane pescatrici.
Tra i vari vagabondaggi ho cominciato a lavorare: volantinaggio, consegna delle pizze, commesso in edicola, dog-sitter per due settimane. Ho messo via abbastanza soldi per affittare un appartamentino squallido. Non spendo molto, a dir il vero; mangio una volta al giorno, pane per lo più, bevo dalle pozzanghere e mi lavo nel fiume. Non ho mai rubato: non mi va; in fondo nella mia testa marcia ci sono ancora le regole dettate da mia mamma. Come dicevo sto a Valle dei Re, un nome imponente per la merda che è. Dico così, ma se mi sentiste parlare notereste una punta di tenerezza e affetto nella mia voce. Voglio bene al posto dove sto, mi dà tutto.
Le mie abitudini sono variate solo un poco: adoro muovermi di notte, lavoro come dog-sitter dalle quattro del pomeriggio alle sei e dalle sette di sera alle nove. Di notte mi sento cupo e minaccioso, i lampioni fanno della mia ombra un alter-ego improbabile, mi muovo con discrezione, vado al ponte e mi spoglio, mi lancio nel fiume e il pisello mi si ritira per il gelo, nuoto a rana e mi diletto un poco nello stile libero. Se per caso qualcuno passa vicino alla riva mi immergo lentamente. Ho imparato a tenere gli occhi aperti sott'acqua; all'inizio bruciavano, ora invece non mi fanno nulla.
Quando comincio a non sentir più i piedi dal freddo, esco. Mi rivesto con calma e mi dirigo verso la mia tana, mi stendo a terra e conto le macchie sul soffitto.
Cinquantaquattro grandi e dieci più piccole.
Mi addormento esausto.
Mi sveglio in un bagno di sudore, ho la bocca secca e la saliva impastata, mi sento soffocare, esco di casa e respiro a pieni polmoni l'aria mattutina. E' fredda e mi squarcia in due i polmoni, inizia una nuova giornata per l'Uomo Iguana.
Mangio due fette biscottate e bevo un bicchiere d'acqua per ingoiare la mia secca colazione. Esco dalla tana coperto dalla testa ai piedi da sciarpe, coperte, cappellino di lana e guanti. Mi metto anche gli occhiali da sole. Li ho trovati in fondo a un vicolo, li hanno lasciati là perché sono un po' graffiati. Mi somigliano. Cammino per le piccole vie di Firenze, so a memoria i percorsi da fare per incrociare meno gente possibile. Ci ho messo un po' ma ora so muovermi, non mi perdo più. Penso che il percorso delle vie meno affollate mi voglia dire qualcosa, sembra fatto apposta per me: un regalo della città che mi ha accolto! Cammino per le vie di Firenze quando incrocio una donna strana: ha gli occhi dilatati, sono enormi e sembra una rana; cammina curva curva e lancia occhiate piene di paura alla gente che passa. Mi sento al sicuro: ha un qualcosa che mi spinge a non aver timore. Mi fermo, la fermo. Mi guarda piena di terrore, la convinco a seguirmi e lei, inaspettatamente, sta al gioco; non mi toglie gli occhi di dosso e arretra di tre passi ogni volta che mi giro a guardarla. Ci vuole un sacco di tempo, ma alla fine arriviamo a casa mia. La tana le piace. Per la prima volta da quando sono nato mi sento complice di qualcuno, mi sento partecipe della vita, degli affanni di qualcuno, per una volta non mi sento isolato, kriptionano.
Mangiamo un po' di riso con le briciole di pane: è una mia ricetta. Si cucina il riso e, in una padella a parte, si scaldano delle briciole di pane; si mischia il tutto e il pranzo è pronto. Alla Donna Rana piace il riso con le briciole, lo mangia tutto, fino all'ultimo chicco e schiocca le labbra soddisfatta. Finalmente cominciamo a parlare.
-Chi sei tu?- comincio io.
-Una- fa lei con un colpo di labbra.
-Come, una! Avrai un nome!- insisto.
-Mi chiamo Giovanna Bovoloni- sibila, fissandomi intensamente.
-Continua, mica ti mangio!-
-Ho 30 anni, vivo alla Casa dei Fiori, ma sto a casa solo la notte, di giorno vado in giro-
-Ma vivi con i tuoi?-
-No, col fidanzato-
-Capito. E' bello?-
-Molto-
-Che fortuna che hai! Io qui sto solo... beh un po' di amici li ho. Vieni, te li faccio conoscere!- La voglio portare sul tetto dove stanno i piccioni.
-No, vado-
-Dove?-
-Casa-
-Ma hai detto che ci stai solo la notte-
-Oggi no, devo stare a casa anche di giorno-
-Ok- dico con l'aria da menefreghista, da duro, tipo gangster.
Se ne va subito, si gira solo un istante a guardarmi con i suoi occhi a palla, mi sorride a modo suo, la Donna Rana. Sono quasi le quattro, devo muovermi! Corro fino alla casa di Daniela, una donna sui quaranta molto impegnata -così si è definita quando le ho chiesto se voleva baciarmi- una donna molto impegnata ma simpatica, gentile. Porto a spasso il suo cane: un grosso cane nero con la bava alla bocca e il culo pesante; muove con tranquillità le zampe anteriori mentre quelle davanti sembrano sorreggere un carico più pesante. Le trascina lentamente e sculetta involontariamente. Lo porto sempre al parco. Appena Daniela rientra a casa, mi vesto come voglio io e mi copro del tutto in modo da non farmi riconoscere da nessuno. So che nessuno mi conosce, ma senza un minimo di routine si diventa matti!
Al parco, Billo (il cane nero), si diverte molto: insegue il bastone che gli tiro e me lo riporta indietro tutto felice. Io con gli animali ci so fare; mi trovo molto meglio con loro che con gli uomini. Le persone hanno mille pregiudizi e inventano mille scuse senza dirti mai la verità; gli animali no: se gli stai antipatico se ne stanno lontani, se gli piaci si avvicinano e ti vogliono bene. Dev' essere questo l'amore di cui parla sempre Romina.
Romina è la protagonista di "Amore Tra Le Mani", una soap opera che fanno su rete 4 alla mattina presto. Romina è innamorata di Julio ma non ha il coraggio di confidarsi perché ha paura di essere respinta; finalmente, quando lui si accorge di lei e stanno per mettersi insieme, l'uomo viene investito da un camion. Ora sta in un letto d'ospedale e dorme tutto il giorno e tutta la notte, non si sveglia mai... Penso che lo faccia perché ha paura di non piacere più a Romina.
Sono assorto nei miei pensieri, quando Fonzie mi passa accanto. Lo guardo fisso negli occhi e lui mi si siede accanto, sulla panchina. Ho visto male. Non è Fonzie, però ci assomiglia molto: capelli impomatati in un ciuffo appiccicoso e giubbotto di pelle. Anche la camminata sicura mi riconduce a lui.
-Ciao, come ti chiami?- inizio io. Come con la Donna Rana mi sento a mio agio e non minacciato.
-Cesare. E tu?- risponde il ciuffone.
-Non ho un nome, sono l'Uomo Iguana-
-Beato te, io il nome Cesare lo detesto; mi piacerebbe cambiarlo. Sarebbe molto meglio se il nome se lo scegliesse il bambino a un'età ragionevole- dice lui tutto d'un fiato.
-Come vorresti chiamarti?-
-Mah, non so... Alessandro non mi dispiacerebbe- fa Cesare pensieroso.
-E se dovessi darti un nome d'animale?- incalzo io.
-Sei strano, sai?-
-A modo mio-
-Che bacchettone che sono diventato! Chi s' incula se sei strano! Sono quelli più normali che poi diventano serial killer e robe varie-
-Sai mica dov'è Casa dei Fiori?
-Dov' è di preciso no, però so cos'è. E’ una casa di cura per i malati di mente, per le persone un po' speciali, perché? Mica ci vorrai andare perché ti ho detto che sei strano! Se è così scusami molto- fiata Cesare mortificato.
-No, tranquillo! E’ che ci abita una che conosco col suo ragazzo-
-Capito. Mi dispiace per la tua amica, allora… Ora scusa ma devo andare: ho la bimba a scuola. Devo prenderla io, mia moglie è dal parrucchiere-
-Ciao, Cesare-
Si alza e se ne va. Mi dispiace molto non aver sentito il suo nome animale. Guardo ancora un attimo l'uomo volpe allontanarsi ingoiato dagli alberi, poi chiamo Billo, torno da Daniela e glielo lascio. Saluto dicendo "ci vediamo domani" , poi torno a casa, apro la porta e mi faccio una scorpacciata di oscurità e umidità.
Mi sveglio alle otto e mezza di sera con lo stomaco che brontola. Per una volta mi concedo un peccato di gola, mi divoro quattro sofficini ripieni di funghi e mozzarella, buonissimi. Oggi è Lunedì perciò non devo far fare la passeggiatina serale a Rox, il pastore maremmano di Luigi, l'uomo per cui faccio il dog-sitter dalle sette alle nove. Esco di casa conciato come al solito. Di Lunedì non gira nessuno per la città: sono tutti ancora stanchi dall'estenuante fine settimana e dal primo giorno di lavoro. Mi azzardo a fare un giro per il centro. C' è davvero pochissima gente e stanno tutti all'interno dei bar. Al freddo c'è solo un vecchio uomo che suona la fisarmonica, suona e canticchia queste parole:
"Sorella morte lasciami il tempo, di terminare il mio testamento
lasciami il tempo di salutare, di riverire, di ringraziare
tutti gli artefici del girotondo intorno al letto di un moribondo"
Batto le mani forte. Per la terza volta mi sento sicuro. Mi siedo accanto a lui e lo guardo attentamente. Aspetto che finisca il suo pezzo prima di chiedergli se l'ha scritto lui.
-No, bel signore. E’ un pezzo del grande Fabrizio-
-E chi è Fabrizio, un tuo amico?-
-In un certo senso, diciamo che è amico di tutti i musicisti, di tutti i poeti e di tutti i cantastorie che girano il mondo cercando di ricordare alla gente che vuol dire amare-
-Me la canti ancora?-
-Ti canto il pezzo che mi piace di più, se vuoi. Come ti chiami?-
Non ho voglia di dire il nome d'animale, così faccio una cosa che non ho mai fatto: rubo.
-Mi chiamo Cesare-
-Bene, Cesare. Ascolta bene-
"Quando la morte mi chiederà, di restituirle la libertà forse una lacrima,
forse una sola sulla mia tomba si spenderà,
forse un sorriso forse uno solo dal mio ricordo germoglierà.
Se dalla carne mia già corrosa, dove il mio cuore ha battuto il tempo,
dovesse nascere un giorno una rosa, la do alla donna che mi offrì il suo pianto,
per ogni palpito del suo cuore le rendo un petalo rosso d'amore"
Batto di nuovo le mani e urlo con le mani a coppa facendo un verso tipo orca assassina.
-Piaciuta?- chiede l'uomo con la fisarmonica.
-Molto, molto-
Sono stupito, esterrefatto: quest'uomo è pieno di passione, di poesia, di cioccolata. Lo guardo fisso e domando:
-Come ti chiami?-
-Lorenzo. Ma chiamami come vuoi tu, Cesare. Siamo troppo legati ai nomi. Ognuno è quel che è; un nome non rappresenta nulla-
Dio mio santissimo! Quest'uomo la pensa come me!
-Ti ho detto una bugia, prima: il mio vero nome è Uomo Iguana-
Ride forte fino a tossire catarro.
-Bravo, Iguana! Così mi piaci: hai quel qualcosa che pochi, pochissimi hanno al mondo. Sei speciale- dice affannato dall'attacco di tosse appena sedato.
-E cos'è?- faccio incuriosito -ho due gambe come te, due occhi come te, una testa e un naso come tutti!-
-Non è questo che ci contraddistingue; la tua è un'altra caratteristica. Tu hai il dono di saper vivere come si deve, scegliendosi la propria strada per quanto strana sia. Mettila così. Hai mai visto una strada lastricata d'oro e di smeraldi?-
-No, mai-
Sono incuriosito. Che esista davvero questa strada meravigliosa? Sembra che mi abbia letto nel pensiero, perché dice ridendo:
-Esiste, esiste, ed è proprio davanti a me. Indossa un cappellino di lana, una sciarpa rossa e dei guanti marroni di pelle-
-Io?- Mi sa che ho preso un granchio: è più matto di un cavallo.
-Sì, tu. La strada di cui ti parlo è l'abilità di staccare i piedi da terra e librarsi in volo sui campi argentati dell'immaginazione, della fantasia-
Non ho capito molto, ma mi sento strano, mi sento orgoglioso, come avessi la percezione di un compito da svolgere a questo mondo.
-Grazie, Uomo Fisarmonica! Ora devo proprio andare. Non che abbia degli orari, ma è meglio che vada-
-Ahahah. Uomo Fisarmonica? Mi piace, ragazzo, mi piace! Buon viaggio. Torna a trovarmi e ricorda che solo le persone speciali come te possono rendere questa terra fertile d'amore. Non farti mai imprigionare: mai farsi legare le ali!-
Vado al ponte a farmi un bagno, mi devo rinfrescare le idee.
Mentre sono in acqua, decido quale sarà il mio ruolo in questo mondo, ma, in particolar modo, quale sarà il mio ruolo in questa Firenze così malandata. Devo salvare la Donna Rana da quell'ospedale per persone speciali. L’ Uomo Fisarmonica ha detto che le persone speciali possono salvare il mondo e non devono stare prigioniere. Io ci credo, ci credo a bomba.
Vado a casa a dormire e mi sveglio prestissimo. Vado da Daniela e da Luigi e li avviso che non posso portare i loro cani a fare una passeggiata. Chiedo a Daniela dov'è Casa dei Fiori e mi scrive l'indirizzo su un foglietto. Me lo metto sotto al cappello. Devo aspettare il buio per agire, così vado sul tetto della tana e mi copro di briciole; mi faccio sommergere dai piccioni che mi ripuliscono dal pane.
Sembra che passi un'eternità, ma finalmente il buio si mangia la città, si accendono le luci delle case e dei locali notturni, si accende uno strano tremito in me. Sono eccitato, trepidante.
Cammino per le strade cercando Casa dei Fiori. Mi perdo. Non mi capitava da un sacco di tempo. Faccio come mi ha insegnato mamma: mi metto le mani sugli occhi e penso forte all'ultima strada che ho percorso. Funziona. Ritrovo la strada e arrivo alla meta.
Casa dei Fiori è grandissima. Il giardino è pieno di fiorellini colorati, il portone è massiccio e le finestre oscurate da tendine verdi pisello. Comincio ad urlare a squarciagola:
-Giovanna Bovoloni, Giovanna Bovoloni, Giovanna Bovoloni- grido fino a farmi scoppiare le guance.
Non mi risponde nessuno, allora lancio dei sassi ad una finestra a caso e si affaccia una vecchia inviperita.
-Qui si dorme, bischero!- strepita senza fiato.
-Mi scusi, signora, ma devo trovare Giovanna Bovoloni. Mi dice qual è la finestra?-
-E' la terza a sinistra partendo dall'alto, e ora vedi di non rompere!-
Chiude la finestra forte e rimango di nuovo solo. La vecchia inviperita mi è stata utile. Conto le finestre e la trovo, mi arrampico sulla muretta e tiro un sasso. Niente. Ne tiro un altro, ma non funziona nemmeno questa volta. Raccolgo un sasso piatto, simile a quelli che mi ero portato dietro a Firenze; immagino di dover colpire l'acqua del fiume e tiro: TOC, centro!
Si accende una luce, si apre la finestra e la Donna Rana mi guarda sbigottita.
-Che ci fai qui, tu ?-
-Sono venuto a salvarti. Sei speciale come me e l'uomo Fisarmonica. Dobbiamo rendere fertile d'amore il mondo- grido tutto d'un fiato.
-Lasciami stare. Io qui sto bene Ho sonno. Ciao- mi dice. E chiude la finestra.
Ci rimango parecchio male. Che disgrazia: hanno già legato le ali della Donna Rana!
Sono passati dieci anni da quel giorno, il giorno in cui incontrai la Donna Rana, l'Uomo Volpe col ciuffone alla Fonzie e l'Uomo Fisarmonica. Non mi sono mai più sentito così a mio agio con nessun altro. Vivo ancora nella Valle dei Re, ma ho deciso di trasferirmi: Firenze è stata la mia casa più bella e interessante, ma sento che devo migrare.
Sono partito di mattina presto per Roma, ho fatto un lungo sonno in treno, ho sognato molto. Ho sognato una luce e dentro c'era la Donna Rana e l'Uomo Volpe e pure l'Uomo Fisarmonica. Ballavano tutti un girotondo e io stavo disteso su un letto fatto di vetro.