Gli scarponcini nuovi
Scritto da Giulia Bozza il 20 Novembre 2016.
Quella è una tipa strana, dicono quando la vedono attraversare la strada di fronte all'edificio principale dell'università. Cammina senza guardare, non ha paura di venire investita?
Ma Cecilia non teme le malelingue e non teme nemmeno le auto che scivolano sul pros pekt Lenin a; è una giovane straniera in una terra non sua, certi pensieri non se ne fa. Che poi, qual è davvero il posto che può definire “suo”? L'Italia, dove è nata e ha lasciato il cuore ma che le si è ristretta addosso come un maglioncino di lana?
Mentre passeggia sul marciapiede, osserva i cespugli di roibo selvatico con i frutti rossi incappellati di neve pallida. Ne scuote un paio con la punta delle dita e sorride nell'osservare i fiocchi cadere a terra in una piccola bufera artificiale. Si possono mangiare, quelle bacche, ma dicono siano molto amare; Cecilia vorrebbe provarle, ma non sa ancora se si sente pronta.
«Ciao, Kirov». La statua non risponde al suo saluto, rimane immobile sul suo piedistallo e sembra indifferente al cenno del capo che la ragazza gli ha rivolto mentre gli passava accanto. Tutte le volte, lo stesso rito: «Ciao, Kirov», cenno cortese con il capo, nessuna risposta. Cecilia non se la prende, ha smesso di aspettarsi delle risposte già da qualche tempo; questo però non vuol dire che abbia smesso anche di farsi delle domande.
Chissà come stanno a casa, senza di me, si chiede.
Chissà se potrò ancora chiamarla “casa”, al mio ritorno.
Per fortuna i dubbi e la paura affondano nei cumuli di neve tenera ai lati delle strade, quelli dove i bimbi si riuniscono per lanciarsi palle di neve e costruire pupazzi con gli occhi storti e senza bocca; alcuni di loro giocano a incollare la lingua ai corrimano ghiacciati delle scale in legno, ritrovandosi poi a mugolare per il dolore dopo essere riusciti a staccarsi. Gli scarponcini invernali di Cecilia guaiscono piano, scandendo i suoi passi brevi e svelti.
Ha cambiato direzione, adesso, sta tornando indietro e percorre la via principale dalla parte opposta. Si è ricordata solo ora di avere appuntamento con un amico.
Attraversa la strada quasi senza guardare. Deve essere proprio strana, bisbigliano alle sue spalle.
E sì, forse sì, anche lei si sente strana. O forse solo diversa da quella che solo due mesi fa poggiava timidamente i suoi piedi sul suolo dell'aeroporto di Tomsk, con uno zaino pesante in spalla e un bagaglio a stiva colmo di sciarpe, calzini di lana e lettere di arrivederci. Ai piedi quegli stessi scarponcini, nuovi di pacca, acquistati per il viaggio durante i saldi estivi. A settembre, un giubbotto più leggero di quello che porta ora, ma l'anima più pesante. Prima della partenza hanno fatto a gara per accollarle tutti i loro abbracci, i loro «Torna presto!», «Non ti dimenticare di noi!», le loro dichiarazioni inattese e dolorose. Ognuno di quelli che le volevano bene le ha fissato dei legacci alle caviglie, nodi da marinai che le intimavano di non cambiare, di non crescere. Rimani la Cecilia che conosciamo, ti prego.
Lei però non è riuscita a mantenere le promesse. Non avrebbe mai potuto, di fronte alla tanta bellezza di quel luogo lontano. Ha sciolto quei fili uno alla volta, silenziosamente, senza ferire nessuno. Le sono rimaste solo un paio di ecchimosi, nulla di più.
«Oh, ciao Anton. Sono in ritardo, lo so, perdonami».
Čechov la osserva severamente dietro gli occhiali dalla montatura rotonda, come se volesse rivolgere un bonario rimprovero alla sua amica straniera, che parla ancora un russo stentato e ricco di buffi errori grammaticali. Non la corregge mai, però, anche lui come il collega di marmo, Kirov, non è particolarmente loquace.
Anton Čechov passò per Tomsk una volta sola, ma non ne parlò bene: disse che le donne erano brutte, gli uomini ignoranti e ubriaconi. Gli piacque il cibo, ma non gli abitanti, i tomicini. Eppure i siberiani, di indole ospitale e dal fine senso dell'umorismo, decisero di dedicargli ugualmente una statua, malgrado tutte quelle parole poco gentili; ma, forse vendetta dopo quella scortesia, il povero scrittore si ritrovò con due piedoni grotteschi e un buffo naso, ormai sbiadito dalle dita dei passanti, e ora si congela gli alluci ogni inverno, senza nemmeno potersi godere la vista del fiume ghiacciato. Cecilia gli rivolge un sorriso e lancia dieci copechi di fronte a quelle divertenti zattere senza calzatura. Poi si volta verso il Tom', ne osserva la superficie cristallina e rimane immobile per interminabili minuti, quanto basta perché il freddo la faccia lacrimare.
«Sai, Anton, è bello avere la possibilità di contattare amici e genitori quando si vuole. Tu la tecnologia non l'avevi, ti dovevi accontentare di qualche lettera che sarebbe arrivata dopo chissà quanto tempo, per scrivere quattro righe ai tuoi cari. Chissà le mogli, le amanti, i figli che tutti i giorni aspettavano tue notizie... Probabilmente soffrivano, o forse no, del resto ci si abitua a tutto. Ci si abitua alla presenza, tanto da trasformarla in quotidianità - e tu della quotidianità sei stato il poeta -, e ci si abitua all'assenza. Il calore di un bacio lontano si scioglie presto, quaggiù, ci si dimentica che a casa ti aspettano un presente e un passato».
Il vento comincia a soffiare, ora, i pochi capelli sfuggiti al berretto di lana si infilano tra le labbra di Cecilia, lei li scosta distrattamente con la mano guantata.
«L'assenza non esiste, con tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo. Skype, cellulare, tutto ci tiene connessi a chi ci ama; facciamo parte della ragnatela mondiale dell'esistenza, eppure siamo insopportabilmente soli».
Gli occhi continuano a lacrimare. Per il freddo, o per cosa.
«Non voglio annoiarti, però, Anton. Fa freddo, devo tornare allo studentato, mi aspettano. Marie ha preparato una torta per tutti, ci ha messo dentro le mele e il cacao amaro. Sa che ne vado matta. Tornerò presto. E ti prometto che non sarò più in ritardo».
Cecilia sa che è una mezza bugia, ma a volte tra amici vengono siglati con gli sguardi dei patti sacri e reciproci e le menzogne, anche quando sono tali, non esistono.
Ma poi, alla fine, cos'è la verità? Cecilia se lo chiede mentre si abbassa difficoltosamente verso i piedi congelati per allacciarsi le scarpe. Una volta chinatasi, però, le viene un'idea.
Si sfila gli scarponcini, facendo attenzione a non perdere l'equilibrio e li poggia di fronte alla statua di Čechov, ridacchiando fra sé. Si sente euforica, si sente libera, finalmente. Ha sciolto l'ultimo legaccio e ora può percorrere la sua strada.
«Questi me li regalò Zia. Sicuramente non ti andranno bene, con quei piedoni che ti ritrovi, ma prendi, sono tuoi!».
E saltellando per il freddo che le congela le palme dei piedi, se ne ritorna indietro; allo studentato, a casa.
Certo che è proprio una tipa strana, quella, sussurrano i passanti. Perché accidenti se ne va in giro scalza?