Incontri e riflessioni

Due chiacchere davanti al fuoco

Scritto da G.B. il 03 Febbraio 2013.

Due chiacchere davanti al fuoco
Sono seduta davanti al caminetto con un bloc notes in mano e guardo ansiosamente l’orologio: non è ancora arrivata l’ora dell’appuntamento, ma sto cominciando ad agitarmi. E se non arrivasse? E se mi avesse preso in giro?
Osservo con occhio critico il mio abbigliamento, pensando se non sia il caso di tornarmene in camera e cambiarmi i vestiti in cinque minuti: indosso un paio di jeans e un semplicissimo pullover a collo alto blu, e forse avrei dovuto mettere qualcosa di più formale. Non so… una camicia, forse? Una gonna no, non se ne parla neanche: non mi sentirei affatto a mio agio. E poi è scomoda. No no, niente gonna. 
Sto seriamente ripensando all’idea di mettermi una camicia. Ormai però è troppo tardi: l’ora dell’appuntamento si sta avvicinando e non vorrei che il campanello suonasse proprio mentre sono intenta ad abbottonarla o - peggio! - a levarmi il pullover pieno di energia elettrostatica. Mi accontenterò di sembrare neutra, forse è meglio così.
Il fuoco sta per morire, meglio se metto un ciocco di legno che brucerà perlomeno per altri quaranta minuti.
Proprio mentre mi sto alzando, suona il campanello. Sussulto per la sorpresa e  sento il cuore a mille. Eccolo!
Cercando di mantenere tutto il contegno possibile, vado ad aprire la porta, emozionata. Non appena me lo trovo davanti, non posso fare a meno di squadrarlo da capo a piedi per controllare se è proprio come me lo immaginavo.
Leggermente curvo, con un’espressione imbronciata e i capelli bianco-grigi, mi osserva anche lui. La sua espressione è indecifrabile, sembra che mi stia… studiando. Beh, che c’è, non ha mai visto una ragazza in pullover? Effettivamente… credo di no.
È più alto di quello che pensavo, anche se non proprio una pertica: gli tendo la mano per presentarmi. Un po’ dubbioso, la stringe tra le sue, continuando a guardarmi negli occhi.
«Piacere, sono Giulia», gli dico con un sorriso.
«Arthur Schopenhauer», mi risponde con voce roca. Io so benissimo chi è, ma non mi sembra il caso di controbattere. Non mi pare un tipo sensibile all’ironia sottile.
Gli faccio cenno di entrare e gli offro un posto sulla poltrona più comoda, quella accanto al caminetto acceso. Io mi siedo in quella di fronte, osservando il modo in cui guarda ogni oggetto. Sembra disapprovare quasi ogni cosa: vedo più volte il suo viso incresparsi in smorfie poco cortesi.
Prima che io parli, mi indica i jeans e pronuncia una sola parola, che è anche una domanda:
«Pantaloni?».
Rimango inizialmente perplessa, poi capisco che forse per lui è strano vedere una donna senza gonna. Annuisco e rispondo:
«Sì, da noi è normale». Non sembra d’accordo e aggrotta le sopracciglia in un’espressione di disapprovazione.
«Mi scusi se l’ho disturbata facendola venire qui, signor Schopenhauer» - comincio - «ma sto preparando la tesina per l’esame di Stato e volevo chiederle se mi poteva chiarire alcuni passi del suo libro Il mondo come volontà e rappresentazione che desidero inserire nel mio approfondimento».
Il mio ospite non risponde subito alla domanda. Capisco che è abbastanza prevenuto per il fatto che sono una ragazza (e porto i pantaloni!) e non sembra molto entusiasta di essere qui. Dopo un attimo però risponde:
«Hai letto il mio libro?».
«Ehm… un pezzo, non tutto…  ».
«Ah. “Un pezzo”», dice quasi fra sé e sé, storcendo il naso. Sta cominciando a scocciarmi: ho capito che è un grande filosofo, ma potrebbe perlomeno fingere di provare interesse per quello che gli sto chiedendo.
«Sì, solo i passi di cui ho bisogno per approfondire il tema che ho scelto. Volevo mettere a confronto il Suo pensiero con quello di Hegel riguardo…».
Non termino la frase perché capisco di aver detto qualcosa di sbagliato: il suo volto sembra quasi… accartocciarsi e un’espressione di disgusto e si rabbia gli stravolge il viso.
«AH! HEGEL!», esplode poi «Quel… sicario della verità! Io non ho nulla a che fare con lui, io non scrivo per il successo e nemmeno per le persone stupide. Mi dispiace, ma non voglio essere coinvolto se Voi pensate di citare anche lui. Non va bene, non va bene».
«Ma, signor Schopenhauer…», balbetto. Mi sento in soggezione verso quell’uomo così facile a questi scatti d’ira. Lui intanto continua a brontolare ad alta voce con lo sguardo rivolto verso il caminetto, quasi come se stesse parlando da solo.
«…tutta questa strada per poi sentire ancora il nome di quel.. quel… oh, non ci sono parole per descriverlo. Non è possibile, la sua ombra mi perseguita anche qui! Ed io che credevo, mi illudevo che qualcuno avesse capito… No, no, non posso. È inutile».
Sembra che stia delirando. Si è alzato dalla poltrona e cammina avanti e indietro, davanti al caminetto. Gesticola animatamente, continuando a parlare a voce alta, tenendo le ciglia aggrottate. Provo a fargli un cenno per attirare la sua attenzione, ma non sembra notarlo. O forse mi ignora volutamente. Ad un certo punto si ferma e, sempre con espressione truce, mi apostrofa:
«No, non posso aiutarvi. Me ne vado. Addio».
«Ma…», provo a protestare.
«Ho detto che non posso proprio aiutarvi. Potete farmi la cortesia di accompagnarmi alla porta, grazie?».
Ho scelta? Lo accompagno all’uscita, aprendogli la porta. Non mi rivolge neanche un gesto di saluto, si rimette il cappotto e si avventura nella nebbia con quell’andatura leggermente curva.
Sono un po’ confusa. Forse non saprà mai che tutti gli studenti provano molta più simpatia per lui che per il suo collega Hegel. Beh… questo è un problema suo, non mi ha neanche dato il tempo di spiegarglielo.
Non capirò mai questi filosofi. Afferro un ciocco di legno e lo getto nelle fiamme del caminetto, guardandolo bruciare.

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