Incontri e riflessioni

Alla prossima, mio caro compagno di avventure!

Scritto da Ilaria Masolin, 3BL il 10 Aprile 2011.

Alla prossima, mio caro compagno di avventure!
Una luce che si accende, le molle del letto che cigolano lamentose per il peso di un corpo estraneo, pugni chiusi che colpiscono il cuscino plasmandolo, qualche piuma che – ribelle – sfugge alla fodera, un colpo di tosse e poi di nuovo silenzio. Un rito. Un mantra ripetuto e mai cambiato.
Poi un urlo: a Villa Fernly la signorina Flora viene garbatamente informata della morte di suo zio, Roger Ackroyd.
Come può essere? Sono stata in compagnia di quell’uomo tutta la sera!
Un’ espressione sbigottita si disegna sul mio volto. Ma è solo un attimo, poi gli occhi si riducono a due fessure e continuo imperterrita.
Un intenso odore di rose prende possesso dei miei sensi, una luce calda mi illumina lo sguardo, che è irresistibilmente posato sul ritratto di un ragazzo, appoggiato ad un cavalletto in mezzo alla grande stanza. Seduta su una comoda poltroncina barocca, sorseggio una tazza di tipico tè inglese.
- È la tua opera migliore, Basil, quello che hai fatto di meglio. - 
È Lord Henry a parlare, e non c’è dubbio che sia proprio così: non si può non essere d’accordo con lui. Lui che, grande oratore, mi blandisce con la parola, ma non mi ispira fiducia.
Sulla bellezza del quadro, invece, non si può obbiettare: il ragazzo è esempio di una grazia rara a vedersi, di questi tempi.
So che sarà questa la causa della sua infinita rovina...
Sono una di quelle centinaia di facce untuose che lo guardano dall’oscurità, circondata da parrucche disordinate, gioielli falsi, abiti sporchi, e pelle che pare scorrere come acqua sulle ossa storte. Una folla di mendicanti laceri fischia e grida dalla galleria: lo spettacolo piace.
Il ragazzo biondo ci guarda tutti e tende le lunghe braccia magre verso di noi, i capelli chiarissimi che gli ricadono morbidi sulle spalle. Fa di sé stesso un danzatore e un acrobata, si lancia in una serie di capriole e salti mortalie poi canta, canta raggiungendo note che gli uomini non possono raggiungere.
Note che le nostre orecchie non possono sopportare.
E l’angelo dannato si sporge verso di noi, mostrandosi in tutta la sua grottesca bellezza.
Ma se prestassimo più attenzione, oltre al sangue rappreso sul delicato panciotto di velluto, potremmo scorgere anche un paio di lunghi ed affilati canini lattiginosi.
Calore che sale dal suolo, dalla terra rossa, viva. Sulla collina sono riunita in cerchio assieme ad un gruppo di ragazzini: una “quasi fata” bionda, un ragazzo dalla pelle color cioccolata, una bimba vispa dagli occhi violetti come fiori di Jaracanda e una matassa di capelli neri aggrovigliati, un ragazzino bruno dall’accento messicano. Un’alta figura dalla pelle color del Canyon ci sovrasta, accende candele e brucia salvia. Ne inspiro forte il profumo: questo è il cerchio della guarigione.
Poi l’indiano comincia a cantare per noi, e la sua voce riempie la sera come il lume della candela, come il fumo della salvia bruciata, come il battito dei nostri cuori.
In me qualcosa è cambiato: la mente è più aperta, lo spirito più consapevole.
Continuo. Continuo perché mi fa stare bene.
Rumore di carta che scivola sotto le dita, sospiri, respiri mozzati dalla sorpresa, il cuore colmo di gioia e gioia che, come una danza di coppia, viene sostituita dalla paura.
E così mi ritrovo a correre in mezzo agli alberi, circondata da hobbit, uomini, elfi e nani; mi ritrovo nel bosco d’oro dove le persone vivono sugli alberi; mi ritrovo al matrimonio di una coppia di adolescenti diventati genitori troppo presto; mi scontro con il diabolico barbiere di Fleet Street, inseguito per le strade di una Londra lontana e diversa.
E ancora vedo un’orda di ragazzini dai capelli color del rame, chini su banchi di legno, illuminati dalla luce nervosa di una candela, intenti a scrivere, su enormi libri, nomi e date, nomi e date, nomi e date in tutte le lingue del mondo: la nascita e la morte di ognuno di noi.
La cosa mi inquieta, mi spaventa, mi intrappola il cuore in una morsa ferrea. Ma continuo.
Per le strade di Parigi seguo la famosa Linea della Rosa, e là dove calice e lancia si incontrano, mi inginocchio anch’io al cospetto di colei che dorme sotto cieli stellati.
Oppure faccio la conoscenza di bambini straordinari: qualcuno senza nome, qualcuno ancora più ingenuo e innocente di quanto i bambini siano solitamente e qualcuno vestito con un pigiama a righe.
Bambini che crescono e diventano grandi e perdono la Voce Segreta; bambini smarriti nella neve. Bambini, come bambina ero io. Come mi sento di essere ancora, in un certo senso, in fondo al cuore…
“Ilaria, è pronta la cena… è tre volte che ti chiamo… Vieni?!”.
Mia madre mi guarda, attenta, ma non capisce.
Con un colpo secco, chiudo il piccolo tesoro di carta che tenevo in mano, mi sfrego gli occhi e poi li riapro.
Sono affamata, come è normale che sia dopo un lungo viaggio. Perché il mio è stato un viaggio, non si può negarlo, uno dei viaggi più belli che una persona possa compiere.
Ed un sorriso mi illumina il volto.
Mi alzo e appoggio il libro sul comodino.
Alla prossima, mio caro compagno di avventure! Alla prossima.

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